Pubblichiamo l’estratto dell’intervento del prof. Federico Faloppa alla conferenza che si è svolta alla Sala Stampa della Camera dei Deputati lo scorso 25 maggio
Come Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio ci interroghiamo da alcuni anni non solo su come facilitare il dialogo interistituzionale, ma anche su come rendere più efficaci la lotta contro il razzismo e le discriminazioni partendo dalla prevenzione e il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio, e dalla promozione di contro-narrazioni basate sui diritti umani.
Il tema dell’hate speech e in generale del linguaggio mi sembra infatti centrale nella discussione odierna, come è emerso anche dagli interventi che mi hanno preceduto.
Anni di monitoraggi e ricerche ci mostrano quanto l’hate speech sia dannoso e nocivo non solo per le persone che ne sono vittime direttamente o indirettamente, e che ne subiscono gli effetti a breve, medio, e lungo termine (dall’ansia alla perdita di autostima all’isolamento e alla marginalizzazione), ma anche per la società tutta – che si deve confrontare con la continua, costante, allarmante normalizzazione di un linguaggio razzista, xenofobo, omolesbobitransfobico, abilista – e quindi per la tenuta stessa della coesione sociale delle nostre comunità.
Forme ed effetti dell’hate speech non sono nuovi, ma nell’ultimo decennio abbiamo visto un aumento esponenziale della loro portata e del loro impatto con l’avvento delle nuove tecnologie di comunicazione, che consentono ai contenuti d’odio di diffondersi istantaneamente a milioni di persone, quasi in modo incontrastato. Queste nuove tecnologie, come ci spiegano il Radicalisation Awareness Network (RAN) della Commissione Europea o l’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europa, hanno tra l’altro reso più facile per i gruppi estremisti connettersi, organizzarsi, reclutare seguaci e quindi amplificare i loro messaggi ben oltre quanto fosse possibile in precedenza. De-territorializzandosi – ed è un problema in più – e diventando quindi più sfuggenti, insidiosi, pericolosi.
In generale, se non monitorato, controllato, contrastato, l’incitamento all’odio alimenta la discriminazione, le violazioni dei diritti umani e la violenza, non solo verbale, verso soggetti spesso già marginalizzati o vulnerabili, minando così l’unità sociale e i valori di partecipazioe e solidarietà su cui si dovrebbe fondare una comunità. Per questo motivo, prevenire e contrastare l’incitamento e tutte le forme di hate speech è prioritario, e dovrebbe essere costitutivo – in bilanciamento con la libertà di espressione – di una democrazia.
Tuttavia, la promozione dello stato di diritto e di quadri normativi e di policy che vadano in questo senso incontra oggi, diversi ostacoli, a livello nazionale, per la mancata valorizzazione nell’agenda politica del governo di temi quali l’intercultura, il constrasto alle discriminazioni, il rispetto dei diritti umani di tutti, inclusi gli stranieri e le persone migranti, l’accesso ai servizi, la lotta alle diseguaglianze, a partire da quelle socio-economiche.
Nel quadro attuale, si accentua così l’importanza dell’azione locale, dell’advocacy a più livelli, dell’attivazione di esperienze, risorse, opportunità a partire dai territori. La creazione di spazi e di occasioni a livello locale non solo si mostra alternativa all’incompletezza di dibattito e attenzione nazionale, ma anche chiave nel dare risposte alle esigenze reali della cittadinanza cittadinanza composita del paese plurale.
Per questo come Rete nazionale abbiamo deciso di impegnarci per stimolare, facilitare la costruzione di “tavoli” locali (comunali e speriamo presto regionali) per prevenire e contrastare discosi e crimini d’odio. E di attivare presidi permanenti capaci di fornire supporto continuativo alle amministrazioni e a tutti i soggetti del territorio, a comunciare da quelli della società civile.
Ispirano questo lavoro gli sportelli antirazzisti o antidiscriminazioni che in alcune realtà, come quella bolognese, si stanno consolidando e stanno producendo non solo servizio ma cultura e prassi antirazzista, anche sul piano strutturale e sistemico. Ma l’esigenza è anche, come a Brescia, dove abbiamo insieme al Comune promosso un “tavolo” interistituzionale che ad oggi include una quarantina di soggetti istituzionali, profesionali, e associativi, e i media locali, fondamentali, di integrare nelle politiche locali azioni specifiche e mirate di formazione, informazione, e prevenzione all’hate speech. E prorpio l’esperienza di Reggio Emilia, alla quale cerchiamo di contribuire con la formazione (del personale amministrativo e pubblico, ad esempio), ci insegna quanto si possa fare ma anche quanto ci sia ancora da fare, nel momento in cui ben orchestrate retoriche dell’odio vengano indirizzate contro l’amministrazione comunale per depotenziare la sua azione olistica nel contrasto al razzismo e alle discriminazioni. Per tentare di comprendere i fenomeni olisticamente, a Milano il Consiglio Comunale ha istituito una commissione speciale sull’hate speech che speriamo possa aiutare l’amministrazione, insieme ai tanti soggetti della società civile, a coordinare iniziative, individuare ambiti non ancora esplorati, mappare eventi, dinamiche, luoghi tanto delle discriminazioni quanto del contrasto.
Molto si può e si deve fare. La sfida è infatti far capire a tutta la cittadinanza che un’azione coordinata e continuativa contro il razzismo e in genere contro tutte le discriminazioni non solo serve per dare risposte puntuali alle vittime prime di questi fenomeni – tra l’altro, tutti possono esserne vittima, come ci insegnano i monitoraggi: da chi fa informazione, ad alcune categorie professionali, a chi fa politica – ma anche formare nuove professionalità intergenerazionali e intersezionali, e a studiare e a dare risposte che intersechino discriminazioni e diseguaglianze (ad esempio, l’emergenza abitativa e il razzismo latente da parte di molti agenti immobiliari, abbandono scolastico e razzializzazione, la profilazione etnica anche negli uffici) a beneficio di tutta la popolazione.
Si può e si deve fare molto anche a livello regionale, dove la sfida è arrivare a tavoli tecnico-politico che coinvolgano attvamente le organizzazione della società civile e le persone e i gruppi target di hate speech per monitorare le discontinuità, le risorse, le opportunità del territorio. In Emilia Romagna, ad esempio, abbiamo Bologna e Reggio Emilia con i loro articolati, innovativi piani strategici contro il razzismo. Ma abbiamo anche amministrazioni locali che stanno restrigendo gli spazi disponibili per la società civile, depotenziando iniziative e azioni. Dopo quindici anni, l’amministrazione comunale di Ferrara ha deciso di togliere la sede all’associazione “Cittadini del Mondo”, se non sbaglio oggi presente in questa sala con due sue rappresentanti nel pubblico, Oligert Osmani e Rachid Camara. Ebbene, Cittadini del Mondo è, tra le altre cose, la realtà che da un quindicennio monitora la stampa locale, e promuove formazione a tanti livelli rendendo protagoniste le seconde generazioni. Che cosa c’è di più discriminante che dire a una associazione di seconde generazioni: non siete rilevanti, vi impediamo di lavorare, non ci interessano il vostro lavoro né le vostre istanze?
Ecco che allora un tavolo regionale, che partisse dalle buone pratiche – a cominciare da quelle della società civile, e dalle diaspore (di cui troppo spesso si sottostima la creatività politica e culturale tout court) – servirebbe per fornire una piattaforma di confronto, per tutti gli enti locali. Per fornire un toolkit ai comuni di base, e per dire tanto ai soggetti target quanto ai loro alleati che cercano di fare qualcosa e di contrastarne la marginalizzazione: non siete soli, la politica e l’amministrazione ci sono! Quanto sarebbe utile, e doverosa, una presa di posizione di questo genere, ad esempio nel sostenere persone come la nuova assessora alle politiche abitative e alla pace di Ravenna, tempestata di hate speech solo perché giovane, donna, di seconda generazione, e a cui invece tutta la comunità – a cominciare da quella politica – dovrebbe essere grata per il suo impegno, la sua energia, il suo entusiasmo nel volersi impegnare attivamente per gli altri, come ammnisitratrice?
Sempre più spesso, ce lo dicono tra l’altro i monitoraggi tra cui il Barometro dell’odio di Amnesty, l’hate speech colpisce proprio anche chi si mette dalla parte delle vittime, chi cerca di costruire alleanze con loro, chi cerca di proteggere le vulnerabilità. Ma anche qui possiamo fare molto. Dobbiamo segnalare l’hate speech, non avere paura di metterci dalla parte di chi ne è oggetto. E quando diventa istigazione a commettere violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, come recita l’articolo 604 bis del nostro codice penale, usare strumenti giuridici. Perché, come giustamente scrive nel suo libro L’età dell’odio il Senatore Antonio Nicita, quando l’hate speech colpisce la libertà delle vittime, impedendo loro di essere parte del dibattito pubblico, non è libertà di espressione: è esercizio di potere discriminante ed escludente, che va contro l’articolo 3 della nostra Costituzione.
Pochi giorni fa, il 18 giugno, la Giornata internazionale per la lotta al linguaggio d’odio proclamata nel 2021 dalle Nazioni Unite ha portato governi, organizzazioni internazionali, gruppi della società civile e singoli individui sono incoraggiati a organizzare eventi e iniziative che promuovano strategie per identificare, affrontare e contrastare il linguaggio d’odio. Molti soggetti della società civile italiana erano presenti a Strasburgo per la no hate speech week del Consiglio d’Europa. Come sapete, lo stesso Consiglio d’Europa ha approvato due raccomandazione: sulla prevenzione e il contrasto all’hate speech e sulla prevenzione e il contrasto all’hate crime. Proprio la prima raccomandazione del 2022, di cui ho avuto l’onore di essere co-autore insieme ad altri esperti europei, ci fornisce un quadro complessivo dell’hate speech, dei vari stakeholder interessati, delle possibili sinergie da attivare a vari livelli, evidenziando il ruolo cruciale sia della politica e dei rappresentanti nelle istituzioni, sia di educatori, media, e organizzazioni della società civile. Grazie al Consiglio d’Europa, aggiungo, stiamo costruendo pratiche transnazionali innovative di scambio, collaborazione, e mutuo apprendimento tra enti locali e amministrazioni municipali, come è avvenuto con la visita di una delegazione Moldava a Brescia e a Reggio Emilia nel mese di marzo con il programma “Città contro l’odio”.
Conosciamo i fenomeni, abbiamo le persone, stiamo acquisendo competenze e strumenti. Ma che cosa sta facendo il nostro paese per implementare queste raccomandazioni del Consiglio d’Europa? E se il livello nazionale latita, possiamo alzare insieme l’asticella del dialogo, e degli interventi, partendo proprio dai territori?
Grazie!
Federico Faloppa è Programme Director di Italian Studies nel Dipartimento di Lingue e Culture dell’Università di Reading, dove insegna Storia della lingua, Linguistica generale, Sociolinguistica e Discourse analysis. Fondatore della Rete nazionale di contrasto ai fenomeni e ai discorsi d’odio.