Il 5 febbraio 1992 l’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga (1928-2010) promulga la Legge sulle nuove norme di Cittadinanza. Il testo porta la firma anche dell’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti (1919-2013), dell’allora Ministro degli Affari Esteri Gianni De Michelis (1940-2019) e dell’allora Ministro della Giustizia Claudio Martelli (classe 1943). Una riforma coerente all’Italia del 1992 promossa da una classe politica che ha saputo riconoscere anzitempo la presenza di “minoranze” di soggiornanti stranieri in Italia che avevano il diritto di vivere questo paese da italiani. La loro lettura era frutto di altre condizioni: in Italia nel 1972 c’erano 167 mila soggiornanti stranieri (di cui il 61% nati in paesi Europei), nel 1982 il totale era di 355 mila (di cui il 52% provenienti da paesi Europei) e nel 1992 – l’anno della legge – erano 648 mila (di cui 35% provenienti da paesi Europei – ricostruzione dei dati elaborata da Istat).
Il profilo medio di questi dati racconta di un’Italia in cui gli stranieri erano una minoranza composta prevalentemente da uomini, in età lavorativa e con un numero molto basso di famiglie con figli. La legge nasce in uno strano momento storico in cui il Governo sa di essere “a termine”. Infatti, pochi giorni prima la promulgazione il presidente della Repubblica Cossiga aveva già decretato lo scioglimento delle Camere, due giorni dopo – il 7 febbraio – i Ministri degli Affari Esteri e del Tesoro firmano il Trattato di Maastricht. Sono gli anni che coincidono con la fine della Guerra Fredda e l’accelerazione dell’integrazione Europea, e la legge nasce come una cartina tornasole dell’epoca precedente, dove la mobilità internazionale aveva caratteristiche socio-demografiche molto diverse da quelle attuali e la cui incidenza rispetto la popolazione totale, e la popolazione giovanile in particolare, non ha nulla a che fare con l’Italia (e il mondo) del 2024.
Un dato su tutti: nell’anno scolastico 1992/93 in Italia gli alunni stranieri erano solo 30 mila, lo 0,3% del totale. Dal 2013 le persone di nascita straniere che sono diventate italiane – giurando sulla Costituzione e sulle Leggi dello Stato – sono oltre un milione e mezzo.
L’Italia è strutturalmente cambiata dal 1992, non soltanto per aspetti più rilevanti come l’essere tra i paesi fondatori dell’Unione Europea ma anche altre riforme che oggi quasi ci sembrano “tradizioni”. Ad esempio, all’epoca non era ancora stata approvata la legge per l’elezione diretta dei Sindaci da parte dei cittadini (fino al giugno 1993 l’elezione del Sindaco avveniva all’interno del Consiglio comunale). Il nostro paese – se ci pensiamo – non è più lo stesso sotto molti punti di vista ed è per questo che, per fare buona politica, è necessario arrivare a una riforma sulla cittadinanza: oggi leggere il nostro paese con la dicotomia italiano-straniero è diventato obsoleto, se non deleterio. Questa lettura infatti ci dice soltanto che i “cittadini non-italiani” residenti sono 5 milioni e 308 mila persone. Però se consideriamo soltanto gli ultimi dieci anni, sappiamo che oltre un milione e mezzo di persone che erano straniere (fonte Istat), sono diventate italiane. Se nel 1992 la riforma era ispirata all’articolo 3 della Costituzione, oggi bisogna pensare a una riforma che sappia essere in linea con la Costituzione nel suo complesso. È necessario infatti tradurre i dati superando la sola lettura italiano-straniero, questo a beneficio del paese e della sua diversità culturale. Queste elaborazioni fanno parte della nostra stessa Storia, che ha saputo nel corso degli anni riconoscere le 12 minoranze linguistiche e culturali presenti nel nostro paese e che ha espresso diverse volte la volontà di coesione a partire dall’istituzione di Regioni a statuto speciale.
Quando raccontiamo i dati “su come è fatto il paese, come sono composte le città e più complessivamente le sue prospettive”, che si parli di scuola ed educazione, di impresa e sviluppo economico, di cultura o di servizi pubblici se non usciamo dal solo sguardo “cittadino italiano – cittadino straniero” equivale a insegnare che 1+1 è uguale a 1.
Fare riferimento alla sola cittadinanza senza prendere in considerazione la diversità e la pluralità culturale è come scrivere un articolo rinunciando ad utilizzare le vocali: riusciremmo a intuire parzialmente il significato e rischieremmo di non comprendere il messaggio.
Questo non significa che il dato “italiani-stranieri” non sia interessante, ma che dobbiamo leggerlo incrociando altri fattori, che forse ci aiuterebbero a capire che una riforma della cittadinanza andrebbe a beneficio di tutti.
Faccio alcuni esempi, a partire dal perché lo Ius Scholae dovrebbe essere una riforma condivisa. Nei prossimi giorni riapriranno le scuole, Kateryna e Malick si sono salutati a giugno da “stranieri”. Durante l’estate la madre di Malick è diventata italiana, se un genitore diventa italiano “trasmette” la cittadinanza ai figli minorenni (rif. art. 14 legge 5 febbraio 1992) quindi Malick è diventato italiano, così come la sorella di 12 anni, il fratello maggiore di 21 invece per diventare italiano dovrà percorrere altre strade anche se è arrivato in Italia dallo stesso numero di anni.
Probabilmente Kateryna sarà felice per Malick ma lei si ritrova a essere ancora “straniera”, e forse si chiederà se la domanda dei suoi genitori potrà essere accolta prima del prossimo anno, quando compirà 18 anni. Perchè altrimenti dovrà ripartire da zero e entrare all’università o nel mondo del lavoro, da “straniera”. Negli ultimi anni quante storie come queste saranno accadute nelle nostre scuole? E quante altre storie dovremo ascoltare? Quante altre “seconde generazioni” diventeranno adulte senza che questa riforma sia approvata?
Leggere in modo più approfondito ci permette di vedere come le casistiche sono diversificate e complesse, molte delle quali generate anche dal fatto che l’amore non riconosce i confini. Pensiamo ai bambini cresciuti in Italia ma figli di genitori con due diverse nazionalità, che crescono italiani ma poi hanno curiosità linguistiche, culturali e storiche collegate ai percorsi della famiglia che portano in diversi paesi. Così come quei figli “italiani dalla nascita” perchè uno dei due genitori è “italiano dal 1861” e il/la coniuge ha un’altra nazionalità. E’ normale che questi figli, crescendo italiani, vorranno però investigare e conoscere il percorso internazionale del genitore nato in un altro paese, o imparare un’altra lingua per poter comunicare con i cugini che sono altrove.
Secondo l’Istat le nuove cittadinanze nel 2023 sono state 214 mila, semplificando è come se ogni giorno 580 persone fossero diventate italiane. Il 40% di questi sono minorenni, come Malick e sua sorella di 12 anni.
Per come oggi raccontiamo questo fenomeno, se continueremo a prendere a riferimento soltanto “il filtro della cittadinanza” rischiamo di elaborare letture imprecise della realtà. Da una parte, non è possibile misurare i sentimenti di persone che si considerano italiane e spesso devono attendere anni e fare mille peripezie per avere un riconoscimento giuridico. Dall’altra parte, chi diventa cittadino italiano non è necessariamente costretto ad abdicare il legame con il suo paese di origine, con i legami famigliari e le amicizie che vivono lì, di non esprimere le proprie conoscenze linguistiche e culturali, di continuare ad avere contatti con le rappresentanze diplomatiche e istituzionali del paese di origine.
Questa “cesura” rischia di essere espressa anche da come i dati vengono poi tradotti in contenuti se continuiamo a considerare soltanto lo status giuridico (italiano-straniero). Riuscire a tracciare i percorsi di cittadinanza ci permette da una parte di leggere più fedelmente la realtà, dall’altra anche a rappresentare meglio la diversità culturale.
Se non facciamo questo scatto, rischiamo di analizzare le persone soltanto prendendo in considerazione “il passaporto”. Facendo così da un giorno all’altro trasferiamo le persone da una categoria a un’altra senza avere come riferimento la loro storia e i loro percorsi, se non consideriamo la dimensione interculturale e internazionale di cui sono portatori, stiamo perdendo opportunità culturali, economiche, educative che potrebbero andare a beneficio di tutto il paese.
Ad esempio, se analizziamo soltanto “cittadino italiano-cittadino straniero” negli annuari scolastici da un anno all’altro Kateryna continuerà ad essere calcolata come alunna straniera invece Malick da un anno all’altro diventerà italiano, senza considerare che lui è anche orgoglioso del paese in cui è venuto al mondo. I tanti Malick ci diranno che il numero di alunni “stranieri” è in diminuzione ma – molto peggio – confermeremo a Diana che anche se vive qui da 12 anni senza la cittadinanza non è italiana nemmeno per cultura.
Stessa cosa all’impresa di cui è titolare la madre di Malick, da un anno all’altro per effetto della cittadinanza, viene prima considerata impresa straniera e dopo il giuramento diventa un’impresa italiana. Che rischia di farci affermare che le imprese i cui titolari sono albanesi, rumeni o tunisini sono in diminuzione, senza avere certezza che i titolari siano gli stessi ma con una cittadinanza in più.
Pensiamo – e spesso discutiamo – con la stessa immagine che aveva il paese e gli stessi riferimenti culturali del 1992. E cosa è cambiato da allora? Che oggi ci sono “stranieri” che festeggiano il 50°anniversario del loro arrivo a Reggio, alcuni di questi con la cittadinanza italiana e altri no. A prescindere dalla cittadinanza, come possiamo continuare a chiamarli semplicemente “stranieri”? E si smette di essere “stranieri” soltanto quando viene riconosciuta una cittadinanza? Ed è vero che con la cittadinanza facciamo “sentire” le persone italiane?
Moltissimi “stranieri” – donne, uomini, anziani e bambini – sono nati altrove ma hanno vissuto più tempo a Reggio che nei paesi di origine. Non cambiano solo i paesi ma i tempi, esattamente come avviene per gli “italiani” tra una generazione e l’altra. Se analizziamo i grandi flussi migratori degli anni ‘90 o quelli dei primi anni 2000, rileviamo come la maggior parte dei “cittadini stranieri” risiedono nel nostro territorio da ben più di 6 anni (oltre il 60%). In questi casi – migliaia – possiamo ancora parlare di accoglienza o di integrazione? E che molti di coloro che non risiedono più a Reggio Emilia possono essersi anche trasferiti altrove, ma spesso questo spostamento è avvenuto verso altri territori della Regione o del paese.
Affinare la raccolta e l’analisi dei dati ci permette di evitare di leggere l’acquisizione della cittadinanza come se fosse una metamorfosi. Gli “ex stranieri” o i “neo cittadini italiani” non sono dei Gregor Samsa: non mutano dal giorno alla notte rinunciando alle loro competenze linguistiche, al loro portato culturale, alla storia e ai simboli di altri luoghi, alle amicizie e agli affetti lontani, alle sensibilità religiose e spirituali, ai contatti che riescono a mettere a valore anche nei percorsi di impresa con il paese da cui provengono. Così come una esclusiva lettura del dato della cittadinanza rischia di farci leggere simili i bisogni di un bambino “straniero” – li chiamiamo spesso così anche quando nascono in Italia – al pari di un suo compagno di classe da poco arrivato in questo paese. I passaporti sono importanti ma esistono percorsi culturali, educativi, sociali e professionali che sono frutto di tracciati che non possiamo continuare a sotto-rappresentare. Se la legge del ‘92 ha portato oggi un milione e mezzo di persone a diventare italiane, quanti quella stessa legge per una lettura adeguata ad altri tempi ha tenuto fuori? Cosa succederebbe se usassimo occhiali vecchi di 34 anni per leggere un libro? Probabilmente faremmo molta più fatica e rischieremmo di peggiorare ulteriormente la nostra vista.
In questi ultimi mesi abbiamo provato ad analizzare meglio alcuni dati di quelli che chiamiamo cittadini con “background internazionale”. Perchè a prescindere che oggi sono italiani, probabilmente sentono di essere anche albanesi, tedeschi, burkinabè, senegalesi, cinesi, moldavi e brasiliani… E’ quello stesso sentimento che molte comunità di italiani all’estero vivono oggi: come quelle centinaia di argentini che da un paio di generazioni sono nati in Sudamerica ma vogliono conservare la cittadinanza italiana e sono iscritti nei registri degli italiani all’estero delle nostre città.
Conosciamo l’attesa e la frustrazione del percorso di chi vuole diventare cittadino italiano? Anche qui ci sono diverse storie e alcune di queste le ignoriamo. Ad esempio, alcune nazioni (la Danimarca, la Cina, l’India e altri paesi) non ammettono la doppia cittadinanza. Pertanto ci sono persone che per diventare italiane rinunciano alla propria nazionalità di origine. E quando tornano per trovare i famigliari e gli amici che hanno lasciato diversi anni fa, può succedere che debbano fare un visto e vengono trattati da “stranieri” all’ingresso nel paese d’origine.
Approvare lo Ius Scholae significa onorare la Costituzione Italiana e leggerla per come l’Italia è nel 2024, e per come era già nel 2011 a dir la verità.. Questo percorso garantirebbe alle bambini e ai bambini, alle ragazze e ai ragazzi che si sentono (anche) italiani di esserlo anche di fatto. Di poter vivere con gli stessi diritti e garanzie dei compagni di classe.
Oltre a questo dovremmo essere capaci – tutte e tutti – di leggere diversamente questo tempo e mettere a valore la diversità culturale perché è una delle speranze di futuro più rilevanti che ha l’Italia. Non soltanto per vincere medaglie alle Olimpiadi, ma nel riconoscere e confermare a tante persone quello che vorrebbero: di sentire di non essere una categoria, potendo crescere senza dover rimanere “estranei” in quella città che è già la loro prima casa.
Gianluca Grassi
Presidente Fondazione Mondinsieme – Centro Interculturale